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Vi ricordate il mio racconto “La mia prima volta“? Questa è la versione di Simone. Ricordiamo che si tratta di una piccola sfida narrativa tra amici: l’incipit è fisso lo svolgimento libero.  Sentiatevi liberi di scrivere la vostra e mandarmela se volete partecipare: <idvp@live.it> oggetto Racconto “La mia prima volta” – frase incipit del racconto “Dicono che tutti noi ricordiamo la nostra prima volta, ma io no.”

Dicono che tutti noi ricordiamo la nostra prima volta, ma io no. O meglio, forse per me non sarebbe proprio il caso di ricordarla…

A dire il vero, la mia prima volta dovrà ancora arrivare, precisamente domani, quando sarò operato al ginocchio.

Come mi son fatto male resta un mistero; non so se mi è successo stando in casa oppure in strada, quello che so è che al mio risveglio mi sono trovato in una stanza d’ospedale.

 Tuttavia, da quello che ho capito, il mio dovrebbe essere un intervento di routine, un’operazione ai tendini del ginocchio non dovrebbe essere un intervento complicato  eppure… sono travolto dalla paura.

Partiamo da una premessa: non mi sono mai piaciuti gli ospedali. Li trovo tetri, grigi e macabri.

Ho fatto anche un sogno sull’ospedale di recente, forse è per questo che ho paura.

In pratica mi trovavo in un corridoio del piano terra, e stavo aspettando di salire sull’ascensore. Una figura nera, con un cappello a tesa larga nero, e dal volto oscurato, mi passa vicino per poi scomparire lungo il corridoio. L’ascensore finalmente si aprì e al suo interno vidi un infermiere con una mascherina a protezione della bocca che teneva con la mano destra una sorta di borsa, per intenderci quella che contiene gli organi. Rammento di essere entrato dentro l’ascensore con la sola voglia di arrivare al piano desiderato e una volta arrivato, ero uscito soffermandomi a guardare per qualche secondo le porte dell’ascensore che si chiudevano, giusto il tempo di notare come l’infermiere aveva inclinato la testa a sinistra prima di scomparire dietro le porte dell’ascensore. Pensavo che il peggio era passato, ma non appena mi son ritrovato all’ultimo piano, le luci di quest’ultimo andavano ad intermittenza, lasciandomi presagire che il mio incubo non era ancora terminato. Infatti, mentre camminavo lungo il corridoio, mi accorsi che ero finito nel piano dedicato alle sale operatorie, ma nessuna di esse era funzionante quella sera o almeno così pensavo, fino a che non mi trovai difronte a un’immagine che ancora adesso al solo ricordo mi fa ancora accapponare la pelle.

Nella finestrella di una delle porte di queste sale, era sbucato all’improvviso un chirurgo che teneva in mano un cuore umano e lo sbatteva violentemente contro il vetro, come se volesse scagliarmelo contro. Non appena vidi questa scena corsi immediatamente verso l’uscita e non mi curai se il chirurgo mi stesse inseguendo o meno, e dopo una corsa infinita, uscii da quel posto maledetto e feci ritorno a casa.

Adesso si capisce il motivo per cui ho paura degli ospedali?

Temo che durante l’intervento il chirurgo possa divertirsi a mie spese vivisezionandomi il ginocchio e poi chissà, magari tutto il resto.

Lo so, tanta gente è stata operata e non è mai accaduto nulla di simile, ma cazzo questa per me sarà la prima volta ed è normale che almeno un po’ sia agitato al solo pensiero di dover andare sotto i ferri no?

Mi sembra di sognare ad occhi aperti. Magari questo è un sogno ed io non me ne sto rendendo neanche  conto, ma se fosse così dovrei pur svegliarmi da un momento all’altro e  tornare alla vita reale, a casa mia, intento a leggere un libro oppure a vedere una serie televisiva, ma purtroppo ciò non sembra possa accadere.

Ed ecco che, mentre io mi sto facendo tutti questi complessi mentali su un problema che non esiste, è entrata un’infermiera molto carina nella mia stanza. I suoi capelli biondi e i suoi occhi azzurri mi rassicurano. Mi sta portando via dalla mia camera verso una direzione a me ignota; che sia la sala operatoria? No, non può essere, l’intervento è fissato per domani perciò non possono operarmi oggi, e anche se fosse, dovrei essere avvisato di un cambiamento così importante visto che io sono il diretto interessato!

L’infermiera mi sta mettendo una mascherina sulla bocca chiedendomi di contare fino a dieci.

Va bene, sto al gioco, infondo cosa ci vuole?

1,2,3,4…

Vi ricordate il mio racconto “La mia prima volta“? Questa è la versione di Charlie. Ricordiamo che si tratta di una piccola sfida narrativa tra amici: l’incipit è fisso lo svolgimento libero. Seguirà la versione di Simone. Sentiatevi liberi di scrivere la vostra e mandarmela se volete partecipare: <idvp@live.it> oggetto Racconto “La mia prima volta” – frase incipit del racconto “Dicono che tutti noi ricordiamo la nostra prima volta, ma io no.”

 

Gino il suo primo giro in giostra non se lo ricorda più, ma passati i novant’anni, glielo si può concedere.

Giulio invece non l’ha ancora avuto. E a questo punto credo si chieda se l’avrà mai.

Ma a parte Gino, Giulio e pochi altri casi, il primo giro in giostra, parimenti al primo bacio, l’esame di maturità, la visita di leva, la prima auto, il primo cane e il giorno del matrimonio, fa parte di quella piccola manciata di momenti, indelebili dalla memoria.

E anch’io, seppure passati diversi lustri, conservo viva rimembranza di quel giorno.

Ognuno l’ha vissuto a modo suo e come tale ne serba il ricordo. Chi con dolcezza,  chi con nostalgia, chi con un po’ di paura.

Io non so se lo ricordo più con nostalgia per quanto eravamo giovani, o con tenerezza per quanto eravamo ingenui, d’ogni modo, andò più o meno così.

Era un pomeriggio d’estate e non poteva essere altrimenti. Dato che ero ancora minorenne e non avevo ne un auto, ne un posto caldo dove andare. Ed inoltre, dato che anche lei era minorenne a sua volta, la sera i genitori non la lasciavano uscire. Forse al giorno d’oggi potrebbe sembrare assurdo, ma erano i primi anni’90 e quella era la regola e non una sfigata eccezione.

I genitori di Mauro, un amico, avevano ereditato da un lontano parente, una vecchia casa colonica con un pezzo di terra agricola adiacente, ai margini di un paesino di nemmeno mille anime, a pochi chilometri da Garlasco. E in attesa che decidessero cosa farne, Mauro si era velocemente appropriato delle chiavi. Per cui, la casetta era diventata sede delle feste adolescenziali di noi amici e il pezzo di terra un improvvisato campo da motocross.

Con buona pace del vicinato, ma neanche poi tanta. Dato che in quei due o tre anni che la utilizzammo per i nostri comodi, fioccarono diffide, denunce a piede libero, ingiurie, minacce fisiche e anche qualche colpo di doppietta da caccia.

Eccessivo? Forse si, da un certo punto di vista. Ma ripensandoci da adulto e con il senno di poi, al continuo susseguirsi delle rumorose scorribande, a cui avevamo sottoposto quei poveri sventurati che vi abitavano nelle vicinanze, io credo avrei usato un calibro più grosso.

Ma al di fuori di tali roboanti e moleste attività corali, Mauro dava le chiavi a turno e dietro precisa regolare prenotazione, a tutti gli amici della compagnia, che avevano necessità di un incontro galante. E proprio lì in quella casetta, più o meno tutti perdemmo la verginità.

D’ogni modo, tornando a quel pomeriggio d’estate, avevo caricato Tania, la mia fidanzatina dell’epoca, sulla moto. E chiavi in tasca, ero partito a razzo verso la casa delle feste.

Credo fosse luglio, o forse giugno, non ricordo bene. Ricordo che la scuola era finita, ricordo il caldo torrido e afoso e la compagnia che era tutta in piscina. Tutta tranne noi due.

Ma d’altra parte, ci avevo messo tre mesi di corteggiamenti a convincere Tania e più in generale, diciassette anni a convincere una ragazza, a spalancarmi le porte del paradiso. Figuriamoci se sarebbe bastato un po’ di caldo a dissuadermi dall’impresa. Ancorché, se avessi saltato il turno, la casa sarebbe stata impraticabile, causa altre prenotazioni, per almeno una decina di giorni. E hai voglia in dieci giorni una ragazza, quante volte era capace di cambiare idea.

Per cui carpe diem, prendi il toro per le corna, cogli la rosa quando è il momento ché il tempo vola, non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi, chi vuol essere lieto sia che del doman non v’è certezza e altre scempiaggini del genere, per dire prendila quando te la da.

Sapevo bene che il codice della strada non permetteva e non permette tutt’ora, il trasporto di un passeggero da parte di un conducente minorenne. Ma anche in questo caso non potevo andare troppo per il sottile. Il mio 125 aveva la sella abbastanza lunga per ospitarci in due e quello bastava ed avanzava.

Tania mi stringeva forte da dietro. Per infondermi quella sicurezza che nemmeno lei aveva. E così in una manciata di minuti eravamo davanti al cancello della casa.

Giù il cavalletto, avevo aperto il portone e spinto la moto dentro, mettendola dietro il vecchio fienile, in modo che non potesse essere vista dalla strada.

Chiavi nella toppa, ci eravamo trovati sull’uscio di quella stanza vecchia e umida. Pareti riverniciate alla bell’e meglio da noi ragazzi, vecchio pavimento in cotto sempre polveroso e soffitto di assi di legno grezzo.

Però essendo appunto vecchia e umida, offriva un minimo di riparo dalla calura estiva.

Avevo preso Tania per mano e ci eravamo diretti verso uno dei tre divani, che ci eravamo portati sempre da noi. Presi in discarica e trasportati uno alla volta con un vecchio Ape Car, messo a disposizione dallo zio muratore di un altro amico. Assurdo? Sempre degli anni’90 si sta parlando.

Le persiane erano chiuse, ma vecchie e provate dalle intemperie, lasciavano comunque passare un filo di luce. Quel tanto da creare un po’ di penombra, che faceva la giusta atmosfera. Che nemmeno avessi voluto sarei stato capace e a cui mai e poi mai ci avrei pensato. Non a diciassette anni.

Il divano sapeva di polvere e muffa. Noi di giovinezza e vitalità.

Ci eravamo guardati negli occhi e baciati appassionatamente. E stringendola al petto, potevo sentire sia il mio che il suo cuore, rimbombare come grancasse impazzite.

Poi ci eravamo spogliati, un po’ meccanicamente, un po’ frettolosamente. Sicuramente imbarazzati.

Non che non ci fossimo mai visti nudi, ma quella era la prima volta, per entrambi, che ci spogliavamo per fare l’amore. E comunque fosse andata, avessimo condiviso il resto della vita o solo un’altra manciata di giorni, quella sarebbe stata la prima volta per entrambi. E per entrambi, sarebbe stato qualcosa di indelebile.

Sapevamo cosa bisognava fare, dai racconti degli amici e dai film. Ma tra la teoria e la pratica c’è una bella differenza.  Il battito cardiaco non voleva saperne di rallentare anzi, tanto da avvertire quasi un senso di vertigine. La paura era palpabile, la vedevo sul viso di Tania che si era distesa sul divano, lasciando a me, l’uomo, l’onore e l’onere di prendere in mano la situazione.

E così avevo fatto, tremando più di lei e senza avere il coraggio di guardarla negli occhi. Come fossimo due sconosciuti. Come se non ci fossimo mai trovati uno sull’altra, per scambiarci baci e tenere carezze. Ma quella volta tutto era diverso. Lei sarebbe diventata donna e io uomo, in quel rito ancestrale che aveva sempre avuto la sua valenza di linea di confine e di punto di non ritorno, in tutte le epoche e in tutte le culture. Noi eravamo lì, con il cuore in gola, come gli esseri primitivi prima di noi e gli esseri del futuro dopo di noi.

Per cui, come in ogni rituale che si rispetti, il protocollo andava portato avanti come da tradizione e io avevo fatto il mio passo. In fondo cosa poteva mai esserci di difficile? Lei era Tania, io la desideravo e lei desiderava me. Il resto erano cazzate.

Se non che, mentre il simpatico fraticello, coperto dal cappuccio previsto dal suo ordine e richiesto dal cerimoniale, aveva bussato alla porta del convento, invece di sentirsi accogliere con gioia, trovava un portone di ferro sbarrato!

Panico.

E adesso? Cosa fare? A questo non ero preparato.

Non avevo mai sentito nulla di simile. Chi degli amici del bar, perché negli anni’90 ci si incontrava al bar e non su Facebook, aveva già avuto esperienze, aveva sempre raccontato tutto con minuzia di particolari. Ma mai si erano registrati episodi di difficoltà alcuna. E nei film porno, filava sempre tutto liscio come l’olio di vaselina. E invece a me, era toccato di cozzare di testa contro uno scoglio, che neanche fossi stato un tonno che nuotava bendato?

E in quel pensa e ti ripensa, il mio coraggio e non solo, stava perdendo vigore.

Mi ero seduto sconsolato, sguardo fisso nel vuoto.

“Cosa ti succede?” mi aveva chiesto Tania, con un filo di voce.

Cosa mi succedeva? E come spiegarglielo?

Tania si era tirata a sedere accanto a me ed al mio imbarazzato silenzio.

“Non so.” avevo risposto. “E’ come se… non so come fare, non vorrei farti male…” avevo bofonchiato.

Eravamo rimasti in silenzio ancora un po’, poi lei mi aveva baciato. Ci eravamo abbracciati e baciati di nuovo. E piano piano mi ero dimenticato del motivo per cui eravamo lì.

Eravamo semplicemente io e Tania, come tutte le altre volte.

Poi ci eravamo distesi un’altra volta, e sempre senza pensarci ci eravamo ritrovati nuovamente nella situazione di poco prima. Compreso il simpatico fraticello che bussava ad un portone sbarrato.

“Cazzo no!” avevo pensato e prima che mi riprendesse il panico avevo deciso di agire nell’unico modo che mi era sembrato sensato e plausibile.

Un bel colpo secco e oplà, il fraticello aveva varcato la soglia. Con Tania che aveva cacciato un urlo e io che le facevo “Ssssst.” Preoccupato che da fuori qualcuno ci avesse sentito e avesse potuto pensare brutte cose.

E con il fraticello, la soglia l’avevamo varcata pure noi. Non ci saremmo guardati più allo stesso modo e non ci saremmo visti più con gli stessi occhi. Facevamo parte del mondo degli adulti, o almeno così mi era parso allora. E al bar, perché negli anni’90 gli amici si incontravano al bar, saremmo passati nella schiera di quelli che avevano compiuto il grande salto.

Poi ci eravamo rivestiti, sempre in silenzio, ma non più tesi come corde di violino. Eravamo usciti al sole del tardo pomeriggio che ancora picchiava e mentre lei chiudeva a chiave l’uscio, io spingevo la moto fuori dal cortile.

Caschi, un colpo di pedalina, perché lo so che sono pedante, ma negli anni’90 le moto si avviavano a pedale, ed eravamo in sella. Come le altre volte. E come le altre volte, l’avevo riportata a casa.

Ne più ne meno, che come tutte le altre volte.

 

Finito di scrivere 21/03/2017

Charlie

 

Questo è il mio primo racconto breve. Nato da un’idea avuta leggendo “ogni cosa è illuminata”. Una piccola sfida narrativa tra amici: l’incipit è fisso lo svolgimento libero. Seguiranno la versione di Charlie e quella di Simone. Sentiatevi liberi di scrivere la vostra.

 

Dicono che tutti noi ricordiamo la nostra prima volta, ma io no.

Dicono che io mi chiamavo Mafalda e che ero un architetto.

Dicono che amavo lo yoga e stare all’aria aperta, tra le mie montagne.

Dicono che ero una zingara, sempre pronta per partire per un nuovo viaggio.

Dicono che avevo un cane di nome Shan che amavo follemente.

Dicono che avevo una memoria infallibile.

Dicono che ero estroversa e amante della compagnia.

Dicono che sorridevo sempre, a tal punto da dare fastidio a chi mi vedeva.

Dicono che sapevo esattamente chi ero e cosa volevo.

Ma io no.

Io di tutte queste cose non ricordo nulla.

Mi guardo allo specchio e vedo una donna che non riconosco.

Esploro i centimetri di pelle che mi definiscono e scopro linee, disegni, cicatrici e rughe di cui non ho memoria. Mi piacerebbe sapere perché il mio braccio sinistro è ricoperto totalmente da dei fiori di loto e da un teschio. Mi piacerebbe sapere il significato del disegno geometrico che sta nel bel mezzo della mia schiena o a cosa si riferisca il fiore che ricopre i miei lombari. Qualcuno si ricorda perché la mia mano destra ha piccole cicatrici sparse o perché c’è un enorme segno, pare un taglio rimarginato, sotto la mia ascella destra?

Sedendomi ho scoperto che non sono simmetrica: ho provato a incrociare le gambe e nonostante sia abbastanza flessibile (wow mi tocco le piante dei piedi senza problemi!) la mia anca sinistra pare sia ingessata.

Pare io sia una persona calorosa e adoro stare a piedi nudi: l’ho scoperto ieri!

Per cercare di aiutarmi mi hanno fatto vedere centinaia di foto: ricordi li hanno chiamati. Ma ricordi di chi? Una versione più giovane del mio corpo attuale ha viaggiato molto e ha visto posti stupendi. Pare si sia divertita parecchio. Ho visto foto magnifiche di luoghi e persone, facce buffe e visi sorridenti. Quello che mi ha catturato di tutte queste fotografie non erano le immagini di per se, ma i colori, le inquadrature, le luci. Affascinante!

Ho letto i vecchi diari di questa Mafalda di cui io non ho memoria.

Mi sono arrabbiata con lei, emozionata con lei, innamorata con lei e ho pianto a volte con lei.

E’ una sensazione strana, quasi surreale: mi sembra di invadere la privacy di una persona che io non conosco, ma che a sentire chi mi sta intorno sono io stessa.  Ammetto che mi è molto facile immedesimarmi in lei e immaginare ciò che scrive e racconta con le sue storie e le sue fotografie.

Ma mi sembra ancora così assurdo che non mi ricordi nulla, ma proprio nulla.

Chissà se un giorno la incontrerò ne miei ricordi e riusciremo a fare amicizia.

Dicono che tutti noi ricordiamo la nostra prima volta, ma io no.

 

Finito di scrivere 31/3/2017

LadyMafalda

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